Pubblicato il 28/09/2009
Nella chiesa frassese di Santa Maria del Soccorso, più nota come la Chiesa di Campanile, si conserva una bella pala d’altare settecentesca raffigurante la Sacra Famiglia che appare a Santa Teresa d’Avila ; la si può ammirare nel Cappellone sinistro del transetto.
La scena è tratta da un episodio narrato dalla stessa Santa nella sua Vita: il mistico incontro sarebbe avvenuto il giorno dell’Assunzione del 1561. In quell’occasione la Madonna l’avrebbe esortata a realizzare la fondazione di un monastero[1]. Elaborata e suggestiva la composizione, in puro stile rococò, gradevole nella freschezza del segno e nella resa particolare degli angeli : le maggiori simpatie vanno alla coppia di angioletti seduti in basso per terra, che si abbracciano vicendevolmente. Elemento di divergenza, rispetto ad altri quadri presenti nella Chiesa, la presenza di un pavimento a basole, che è invece uno stilema e un carattere proprio del suo autore.
Fino a poco tempo fa, di quest’opera non si conosceva la paternità, e gli studiosi locali la davano nell’ambito del “dirimpettaio” solimenesco Michele Foschini (1711-1770), il quale nel 1742 firma una S. Maria del Soccorso con i Santi Rocco e Sebastiano[2].
In realtà questo (finora) ignoto artista non appartiene all’ambito solimenesco, sebbene sia di formazione sicuramente napoletana : si tratta di Vincenzo Fato (1701-1788), pittore di origine pugliese, ma formatosi a Napoli nella bottega di Paolo De Matteis. Un’iscrizione menomata da caduta di colore riporta la sua firma sulla tela, che però non si è ancora riusciti ad interpretare. Essa dovrebbe leggersi verosimilmente [OPUS VI]NCENTII FATO [A C]ASTELLANA 1743 : opera di Vincenzo Fato da Castellana 1743.
Ma verrebbe da dire, parafrasando Manzoni, chi era costui ?
Del Fato, il “delicato piissimo pittore”[3], si è potuto ricostruire negli ultimi anni un ampio e aggiornato profilo biografico, grazie alle recenti indagini di vari studiosi : in particolare vanno segnalati la voce curata dalla Pasculli Ferrara sul Dizionario Biografico degli Italiani, dell’Istituto Treccani (1995), e l’articolo dello scrivente sul periodico Fogli di Periferia, a. XI, n. 1, 1999[4].
In sintesi, Vincenzo Fato nasce a Castellana, vivace borgo contadino della Terra di Bari, nel 1705. Compie l’apprendistato artistico a Napoli, alla scuola di qualche rinomato pittore, con molta probabilità presso Paolo de Matteis, o Giovanni Battista Lama. Ritorna in patria intorno al 1729-30, affermandosi come pittore indipendente al servizio della nobiltà locale, del clero e soprattutto degli ordini mendicanti : domenicani, francescani, carmelitani. Ma una certa ambizione, unita a una giusta consapevolezza del proprio valore professionale, lo invoglia a tornare a lavorare nella Capitale : là dove si rischia di conquistare la fama (e soldi e prestigiose commissioni), ma anche la fame, perché la concorrenza era spietata. Nella seconda metà del 1741, infatti, è a Napoli, domiciliato in via dell’Avvocata, nel rione in cui all’epoca abitavano tutti gli artisti. Sono questi gli anni più felici della sua carriera : tra i primi mesi del 1742 e il maggio 1743 realizza otto quadri per i locali della sagrestia e dell’antisagrestia del Tesoro di S. gennaro in Duomo. Nello stesso anno firma la pala di Frasso e il 17 ottobre si sposa con la napoletana Antonia Picardi, dalla cui unione nasceranno sette figli[5]. Nel 1747 consegna ai Padri Olivetani di S. Anna dei Lombardi in Napoli die Episodi della vita di S. Francesca Romana, destinati all’eponima cappella. Dopo quest’ultima commissione di rilievo, incominciano le prime difficoltà, culminanti con il precipitoso viaggio, quasi una fuga da Napoli, del 1752.
Nell’aprle di quell’anno lo troviamo in viaggio con tutta la famiglia verso Castellana, ed in compagnia dell’amico prete Giannantonio Cardone, suo compaesano[6] ; durante il tragitto è costretto a sostare alla Taverna d’Orta, in Capitanata[7], ove la moglie partorisce la terza figlia, Maria Saveria. Doveva essere successo qualcosa di grave se, con la moglie in avanzato stato di gravidanza, si era deciso ad intraprendere un viaggio così lungo e faticoso : può darsi che le cause di questo improvviso spostamento stiano forse in una lite accesa, o nella mancanza di lavoro, o in un dissesto economico tale da non potergli permettere ulteriormente la vita in città.
In patria continua a dipingere e ad ottenere commissioni, ma le sue condizioni economiche si fanno sempre più sfavorevoli.
Il bisogno di lavorare e le necessità impellenti costringevano spesso il Fato a dover mercanteggiare coi committenti sul prezzo delle sue opere ; cosa fastidiosissima per lui, che giustamente si sentiva un galantuomo e si considerava superiore a queste meschinità. Una sua lettera del 24 gennaio 1768 testimonia vivamente questo stato di cose, ed è tra l’altro un documento notevole che fa luce sulla sua personalità : si ricava il profilo di un uomo mite, abituato da tempo a tollerare le amarezze e le delusioni per la sua professione, a moderare nel contempo i moti dell’animo e la consapevolezza orgogliosa del proprio valore artistico.
L’eoistola è indirizzata a don Michele Manuzzi, procuratore del Monastero di S. Benedetto a Conversano. Si trattava di due opere che le monache volevano pagare a poco prezzo, perché non stimavano che il lavoro valesse oltre ; e lo fanno sapere al pittore senza mezzi termini, in maniera piuttosto offensiva per il nostro. Scrive infatti il Fato a don Michele, nel chiedergli una sua mediazione nella trattativa : “E’ tropp’ingiusta la offerta delle Signore Monache, che appena basterebbe per un solo di quei quadri ; né bisognava ponere la condizione del purché siano buone pitture, perché io son un uomo che non tanto fò l’opere per l’utile, quanto per l’onore, imperocché quel poco lucro subito si consuma, ma l’onore dura ; e questa è forse la mia pazzia”. E più avanti : “Io compatisco le Signore Monache, e benché tutte Signore, inesperte però di queste cose, e perciò stimano assai il denaro e poco la virtù” e ancora :”perché le cose buone non si ponno avere a vil prezzo”.
Costretto a contentarsi di poco, comunica a don Michele che tuttavia accondiscende alla riduzione del prezzo : dai primitivi 50 ducati, il Fato ne chiedeva ora solo 30, senza caparra e in omaggio “una grossa spasa di dolci per le mie figliole”. E pensare che il monastero di S. Benedetto era ricchissimo !
Ormai anziano, il Fato intraprende nell’ottavo e nono decennio del secolo la fase più intensa e difficile della sua carriera, oltre che della sua vita : malfermo nella salute, ridotto per ragioni non chiare in miseria, continua tenacemente a dipingere per sostenere sé e la sua famiglia e per pagare i debiti contratti. Tra il 1770 e il 1788 si contano oltre dieci pale d’altare di grandi dimensioni, ed altrettante opere di minori misure, nelle quali affiora un impegno, un’energia creativa e una laboriosità frenetica, fatta di continui ripensamenti, pentimenti e correzioni, un tratto ancora energico e sicur0 e una sorprendente freschezza cromatica, espressione di un artista giunto al limite della vita, ma fermamente determinato ad affermarsi, contro le ristrettezze del momento e per la gloria presso i posteri, per quell’onore tanto anelato che “perpetuamente dura”.
E’ certo che il pittore dipinse sino al termine dei suoi giorni, lasciando l’ultima opera incompleta per la sopravvenuta morte : si spegne a Castellana, nella sua casa di via del gelso, il 6 febbraio 1788. Viene sepolto nella Chiesa del Purgatorio, in compagnia dei tanti santi e angeli da lui raffigurati nei dipinti, di quella che oggi è una vera e propria sua pinacoteca[8].
[1] Piscitelli V. – Battisti S. -Calandra C., La Chiesa di Campanile, Roma 1997, p. 48
[2] Ibidem, pp.43-49
[3] Lanera M., Gli atti della santa Visita del 1738, Castellana, 1990, vedi indici
[4] A questi due saggi rimando per una più estesa bibliografia sull’argomento : tuttavia in entrambi, come in precedenza, si tace sulla tela di Frasso, “scoperta” dallo scrivente solo nel luglio 2000 e menzionata in Lanzillotta G., Vincenzo Fato pittore (1705-1788), tesi di laurea, Università degli Studi di Milano, Facoltà di lettere, a.a. 1999-2000.
[5] Di Giovan Pietro (1745-75), Maria Saveria (n. 1752), Grazia Maria (1754), Marianna (1761) sono noti gli atti di battesimo e qualche altro dato ; di Francesco (m.1783) Michela, Arcangela si ignora la data di nascita.
[6] Lanzillotta, op.cit., 1999-2000, p.21.
[7] Nell’atto di battesimo di Maria Saveria risulta una “Taverna d’Ardò”. Ma si tratta certamente di una storpiatura del compilatore dei registri, ed era cosa che succedeva piuttosto di frequente all’epoca, data la diffusa approssimazione dei toponimi come dei nomi di persona : basti ricordare copme nel passato il nostro pittore fu ricordato a Napoli come Vincenzo Frate. La Taverna d’Orta era situata nei pressi del fiume Carapelle, lungo la valle appenninica di Bovino, uno dei consueti luoghi di transito dei viandanti tra la terra di bari e la Capitale, per la valle di bovino oggi passa infatti la linea ferroviaria Foggia-Napoli. Vedasi in proposito Lanzillotta G.,Vincenzo Fato : nuove scoperte, in Susasuso dodici .2000
[8] Attualmente è in corso il restauro integrale della decorazione interna della chiesa.
(Cfr. MOIFA’ 26, Ottobre 2001, pp. 19-21)
G. Lanzillotta