Pubblicato il 2/11/2009
Sulla collina che sovrasta il Casale di Limatola sono ancora ben visibili i resti dell’Eremo di S.Erasmo, di cui parla anche lo storico di Limatola Don Bartolomeo Varrone, nel suo libro Memorie Istoriche di Limatola: “Situato -insieme alla Chiesa dedicata al santo- in cima del monte della piana dei Tifatini, era sotto la giurisdizione dell’Arcipretale di Ognissanti, fin dall’anno 1488”.
I ruderi sono così connaturati al paesaggio che nessuno fa più caso al fatto che si tratta di un pezzo di storia del paese che verrà per sempre dimenticato, quando le intemperie e lo scorrere del tempo lo avranno definitivamente demolito. Eppure non sono molti anni che era meta di escursioni, post orario scolastico, da parte dei ragazzi più arditi, i quali salivano la collina per raccogliere “fiori di S.Giuseppe”, narcisi selvatici dall’odore pungente, e portarli alle maestre il giorno successivo, oppure viole o anche asparagi, o si arrampicavano per i pendii e raggiungevano la vetta, per semplice spirito di avventura, e saziavano la loro naturale curiosità di entrare in un luogo disabitato, ma nel quale erano ancora visibili le tracce della vita della comunità che ivi risiedeva.
Ma S.Erasmo è stata da sempre la meta della gita del lunedì in albis, per tutte le famiglie, che, ancora prima dell’avvento della motorizzazione, si concedevano una passeggiata per smaltire i resti dell’abbondante pranzo della Pasqua e nello stesso tempo per consumare gli avanzi della festa.
Portavano con sé le classiche tovaglie a quadrettoni, con gli angoli legati a formare un contenitore per tutte le ricchezze culinarie del tempo: timballi, frittate, salumi, pastiere di riso e il fatidico “casatiello”, che tanto impegno richiedeva da parte delle donne, ma che raramente riusciva secondo le aspettative. Era una specie di pane ruvido, contenente spezie profumate, zucchero e uova e ricoperto di una leggera colata di glassa bianca e granelli dolci multicolori. Aveva un sapore gradevole e leggermente acidulo; si confezionava esclusivamente nel periodo pasquale e richiedeva una lunga preparazione. La sua riuscita era comunque legata anche al variare della temperatura in quel periodo, in quanto la sua lievitazione veniva affidata alla presenza nell’impasto di fermenti naturali. Si mangiava da solo, oppure si intingeva nel vino ed era la chiusura del pasto. Il dolce viene confezionato anche oggi dai pasticcieri di professione e anche nelle famiglie, ma non è più quello di una volta, essendo intervenuti nel frattempo i ritrovati chimici, che ne hanno alterato la natura e il sapore, anche se ne hanno garantito il risultato, in termini di aspetto.
Così, il lunedì in albis, si sentiva anche da lontano un vocio inconsueto: erano le persone che salivano per il pendio e chiacchieravano animatamente tra di loro. Giunte alla vetta della collinetta si fermavano nel piazzale antistante l’eremo, cantavano e intrecciavano balli, consumavano il pasto e nel pomeriggio rifacevano il cammino inverso per tornare al lavoro di sempre.
Lidia Di Lorenzo