pubblicato il 24/2/2014
Verso la fine degli anni novanta, in occasione della ristrutturazione della vecchia chiesa di S. Biagio fuori le mura del castello, durante uno scavo effettuato nei pressi dell’altare maggiore, per la messa in opera del nuovo pavimento, furono rinvenute due tombe.
In una fu trovato il corpo di un nobile, forse un duca, risalente probabilmente alla metà del Cinquecento, come si poté evincere dal vestiario perfettamente conservato. Il nobile vestiva un mantello simile al tabarro, che dalle spalle cadeva fino al ginocchio, una candida gorgiera, ovvero un colletto consistente in una striscia di lino pieghettata a ventaglio e sostenuta da una sottile armatura di fili metallici, copriva il collo. Una giubba di ispirazione spagnola aveva due aperture ai lati che lasciavano intravedere fodere di stoffa preziosa e con maniche legate al corpetto mediante bottoni. Le larghe braghe al di sotto dei ginocchi erano inserite in calzettoni che terminavano in due scarpette di cuoio ricamato. La seconda tomba doveva essere quella di un bambino intorno ai dieci anni; degli abiti però rimaneva ben poco.
Appena il vestito del duca venne a contatto con l’aria cominciò a sfaldarsi come carta bruciata. Si tentò di preservare un tale prezioso ritrovamento, ma fu tutto inutile, perchè appena si toccava la salma ogni cosa si riduceva in polvere. Alla fine ciò che rimaneva insieme alle ossa, fu raccolto in una piccola bara. All’operazione assistettero i carabinieri della locale stazione chiamati dal parroco don Giuseppe Giuliano, i quali diedero il loro assenso per il trasporto e la tumulazione della bara nel cimitero di Limatola. Le notizie esposte sono state riferite dal parroco don Giuseppe Giuliani che assistette al ritrovamento e alla tumulazione suddetta.
L’interessante scoperta – si trattava di un duca Gambacorta, forse Francesco, di Limatola con figlio – ci offre l’occasione di riferire, sia pure in maniera sintetica quali erano i vestimenti in uso nelle province napoletane dal XII al XVI secolo, in verità non molto dissimili da quelli che si ritrovavano ancora nei nostri paesi fino a pochi decenni fa.
Da un documento rinvenuto nell’Archivio storico delle province napoletane. Anno XXII° Fasc. I°. Napoli 1897, p. 648 sgg., estraiamo questo elenco di capi di abbigliamento maschile e femminile del tempo:
La camicia. Era un capo essenziale dell’abbigliamento sia maschile che femminile, tuttavia si deduce dai passi che seguono che i maschi la portavano come abito esterno, mentre le donne lo portavano come capo intimo, camisia interula. La camicia per uomo era indossata soprattutto da nobili, essa era denominata anche “camisea, cammisea, camisia, camisa, camisa mascolina, cammisa (nap.) de homo de tela de olando con maniche larghe, lavorata de oro et seta carmosina a le maniche et a li capicze de tela de olanda”. “Pecto de cammisa, de cambraje lavorato de oro tirato de rellevo inpescato (mischiato) con argento tirato sopra lencza (lenza, nap. striscia, vista) de siti carmosino”.
La descrizione della camicia da donna si rileva da un elenco di capi di corredo di una fanciulla da maritare. “Camisia muliebris, interula, intervula: de pagnu de linu: tamen dispono ut tenuta fiat nemorata coniux mea donec quod ipsa revenerit ad maritantum facere debeat per omni anno, id est camicie duodecim de pagnu de linu pro ipsa conius mea illas tantum in die veneris sanctum a duodecim pauperibus pro anima mea”.
Le camicie potevano essere di varie stoffe e modelli: de pagnu de renzi ; de panno cave; de panno renzie impurcuzuta; de pannicello resciata de oro et con capicze de oro seta negra et Carmosina; de tela de olanda lavorata de seta negra co le maniche larghe a la catalana; de tela de olanda suptile con le maniche larghissime laborate de seta de grana, simile con le maniche ad pugnali; de tela de casa soptile laborata con pontilli; de cambraya coste de oro; laborata de filo; ad reticellas; laborata de auro; seminata; ad vigenti sex liculas cum magnis manicis; ad chiappitelle; ad iugasitum
Il corpetto. Il corpetto copriva la camicia nell’uomo e costituiva la parte superiore dell’abito femminile.
Il mantello. Palledellum, pullidellum, secondo il d’Ovidio. In una pergamena greca trovasi la voce palledallion. Nelle glosse di Vienna (Anciens glossaires romans, p. 129, nella collect. Philologique, Paris 1870, f. 3), pubblicato dal Diez, è “Paludel, sarròc (abito di guerra). Secondo il Diez, paludel deriverebbe dal latino paludamentum. In italiano appare una prima volta in una traduzione manoscritta di Valerio Massimo: paludello, piccolo mantello.
Le mutande. Brace, brache, mutanda, paro de cauzune (nap. calzoni), de panno grosso bianco
Barrecta da nocte.
Imbuccaturo, maccaturo, (nap. fazzoletto), de tela de olanda con lavoro a mano di pezzulli larghi con certe lenze (strisce) lavorati a mano.
Mantesino (nap. grembiale) de tela.
Cagarelle (nap. fasce) da infasciare creature (nap. bambino).
Abiti da uomo. Oltre la camicia e il corpetto troviamo: la tunica, juppa, juba, giubba, zoppa, cioppa, de viridi de panno, coloris nigri, de saja rubea, de seta, de pago naczo, de grana rinfoderata e poi Jupparellu, juppettum de guarnello (corpetto di tela bianca et oro falso); Juppo. Jeppone de seta leonata, de fostanio bianco. Gioppone de tela d’argento con guarnitioni d’oro; Sajo, de damasco nigro et guarnito de velluto nigro et broccato rinfoderato de grese, a la francese de panno nigro et velluto morato con liste de taffecta argentato; Sajone, alla francese de velluto nigro con gironi di raso paonazzo allistato foderato de seta; Guascappum, de bleve, guascappa (fr. antico); Roba, de perpignano longa rinfoderata de siti celestre de pagonaczo de grane infoderata de velluto nigro; Robone, de scarlata inferrato verde.; Thoga,de panno lane albo; Epidogium; Guarnacia, de fiorentino, de viriis minutis; Coctardida, de terricana, rinfoderata de brunetto nigro; Jornea, de imbroccato de oro carmosino, de velluto nigro con frange de oro; Coperto de pecto, a la scimiczata de velluto carmosino ricamato de oro tirato rinfoderato de siti nigro; Gorghera de seta,pagonacza resciata de oro et de seta morata; Mantellum, ruxum, coloris celestini de carcasono, de velluto nigro infoderatum de pannaceo inforratum de decendato rubeo de luca, protundum de panno brevi; Mantello de acqua, (impermeabile di oggi), de pagonaczo rinfoderato de panno celeste; Tabarrum, tabardum de viridi forratum variis, de panno iubisco rinfoderato de bianchecto, nigro inferrato verde; Capa, cappa: de mellato (velluto) bleveto , crispa de viridi; Cappa ad equitandum pro equitando: de viridi de bruno, de salito rubeo, de scarlata rubea forrata de variis minutis; Borrico de ziambellocto con le maniche inforrate de bagnini; Scappuzio de gramaglia; Cappellus, albus peluso de filtro, de grana peluso, fradisco, guarnito de siti nigro; Pileum de polis copertum saja nigra; Calfarda,ciffarda de scarlata de viriti. (era una specie di berrettone che si ponevano gli arcipreti di S. Giorgio al Mercato e di S. Maria Rotondo, vestiti di piviale, per fare le “squarastase” all’arcivescovo e al Capitolo nella Pasqua di risurrezione). Il Borgia ci fa sapere che le cialfarde erano i berretti che portavano gli inservienti della curia di Benevento, i quali perciò si chiamavano Ciffardi (Mem. Istoriche della pontif. Città di Benevento, Roma 1774, V°. II°, p.289);
Guantis de cerbo ; Calzares, calciarettorum, caligis de bleveto; Calcze de stambecco nigro, de panno biancho; Calce de scarlata careinalesca, de taffecta nigro, negro ricamate de oro et seta cannosina; Stivali di cervo; Stivalecte; Bolzacchini de somacco; Chianelli, de coiro al la valentiana, de velluto nigro, de damaschino, de pelle.
Vestiti da donna. Oltre la camicia come veste intima e il corpetto, troviamo: roba, veste, abito completo. Le parti che lo componevano nelle scritture napoletane erano dette “guarnimenta”, così: Roba retium guarnimentium, cioè tunice ceprensis et mantelli de velluto rubeo cum pannis seu foderis de vayris ac in fresatura (orlatura); Robone de tafectà nigro, de velluto nigro infoderato de lupi cerveri; Robecta de velluto nigro rinfoderata de tafecta bianco, de brostono, de pirpignano senza scappoczino con lo collare de velluto; Mencia Roba, de siti nigro a la francese revectata (orlata) de velluto nigro con deceocto maglie de oro smaltate alle maniche et a lo pecto con lo collecto et foderata de broccato nigro; Tunica muliebris, femminea: de bleveto cotidiana, de scarleto, de bruneto, de panno nigro aut viridi, de panno tartarico inforrata de panno tinto, de panno anteo cum “infresaturello” de perlis, de osellato (uxellato, ricamato ad uccelli, manicarum duarum “superfluarum”, cioè maniche di ricambio. Le maniche erano separate dalla veste e vi si attaccavano provvisoriamente prestandosi così a svariate composizioni di colori; Gonnella, de paonacio de grana cum manicis infoderatis damaschino carmosino, de panno cardenalisco, de cardenalisco con maneche con pontali de oro listata de velluto nigro, partita de siti bardiglio et velluto limonato listato de siti nigro ad tre lenzce con sey buctuni smaltati de oro, con una cifra, fiorencza de verde cupo con le maneche guarnite de pontali de oro e con la “cortapisa” de velluto limonato de siti biancho listata de siti Carmosina, de broccato carmosino raso figurato con grappa de velluto nigro da pedi con maniche larghe a la francese, de damaschino bianco infoderato de tela cruda; Sultana, sottana; Sbernia.Bernia (sp.), bernie (franc.), da Hibernia, Irlanda significando dapprima una stoffa lanosa e villosa, che si fabbricava in Irlanda, poi, passò a significare i mantelli che con quella stoffa si usava fare (Diez e Koerting, il lusso di Isabella d’Este, nuova antologia, 1986, vol. 147. p. 457).Era un mantello ampio e lungo, fissato sulle spalle, che si poteva volendo, gittare anche intorno al collo, ovvero poggiare sul braccio, de siti bardiglio revectata ad tre rinfoderata de tafecta nigro. Coctardita,de panno violato cum pomectis de auro laborato. Cuctella, de lana bleve cum collu de pernis. Cursectus, corsectus, panni de lana de brussella coloris. Faltiglia, di tafecta a fiamma con passamano do oro fino cum suo corpetto. Gorgiera, listata de seta nigra et biancha. Supertunicale, cum manicis, sine manicis. Sajo, de velluto carmosino listato de broccato biancho. Gamura, cirmilia Gamorra, de brochato morato. Camorra, de brocato pictato morato. Zimarra, biancha con cagarelle de seta negra, bianca de bagnini. Infresatura, orlature, da friso in collu et manicis robbe de pernis, auri tracti, de oro. Imponellatura, bottoniera, intesa de argento petiorum docenta, con bottoni de argento de aurato, de auro cum esmaltis ad arma, de oro a manico de lasso, de ambra, de zoetta, de calcedonio, nigri cum lapide viridi, de perlis. Gramata, francia. Centura, cintura, di boye (bue) marino cum murdanti et bocchula et czapecta de oro. Centa de recza, de seta verde, de ioyecti negre. Cintus de serico, de florentia. Corrigia,pro muliebris: serica nigra, de ligno cum boccola murdante et passante de ligno subtili et genioso opere laborata, de argento. La corrigia era variamente lavorata, quindi si aveva la corrigia de seta clabata de stagno, de argento, con barre de argento de correa, corrigia con scripta de argento con le licere de la Nunciata. Bursa,rachamata de auro et serico imbrusuta, cum serico et auro consueta, de seta alba ad pappagallos cum buctonibus de perlis tribus. Corda, Filaru, Resta de paternoster: pallottoline di pietre o di metalli preziosi, che da principio si usavano a scopo di devozione per le corone del Rosario, ma poi ben presto furono impiegate per lusso, appesi alla cintura, o girati attorno al collo, e si trasformavano persino in contrassegni d’amore: de coralli, de ambra, de perlis. I paternostri erano intermezzati da “in segnali”, segnacoli, cioè globi più grossi, come nei rosari, de argento, Auri, de zeffiris et perkis grossis, de calcedonio.A questa specie di cintura erano sospesi talvolta ciondoli di diverse forme: Es.: duy componecti et un T de Sancto Antonio. Attaccalia, (nap. attaccaglie), nastrino a cui era sospesa una croce.Collarectus niger. Gorghera, de pannicello de seta laborato, de seta et oro.Faciorum,facziorum, fazzoletto che si portava alla testa ed al collo: de seta, listato de seta, ad aurum, de venetiis listatum de serico. Mandile,mantiglia. Tobalea, pro capite, da capu, muliebris pro capte, pro collo, de collo, ad collum: de serico cotidiana, serici auri laborata ad rosas auri, ascolana auri et serici,greca lavorata de seta et oro con le frange, laborata serico ad usum Aprucii cum certis avibus et arboribus. Pannum, serico qui se vocat catablatto P. supra clavia cum litteris cervello anulo vittulos. Supra clavia, secondo il Morea, significa ornato di strisce di porpora da clarus. Sarebbe il fazzoletto che si porta, specie in ambiente contadino, sul, capo con i lembi laterali rivolti in su e nascosti da quello del davanti rivoltato sopra di esso. Vilum, seta, de seta cum auro. Caputheum, de panno de Ingrecterra, capuczelli romaneschi. Cappellus,de pannis pavonu. Cappello, de siti nigro guarnito de oro, biancho guarnito de velluto carmosino. Cappellus, ad solem, cohopertus de panno aureo cum diversis operibus esmaltis pernis et lapidibus pretiosis forratus de cendato violecto cum floribus aureis et cum laqueo de seta in quo erant buctones de pernis quinque. Lactuca, de testa de dompna. Scuffia, (nap. Cuffia) de oro et siti carmosino coperta de ricze de oro et con li laczi de oro, le trenczato de pannicello de seta con capiczi laborati. Scuffione, de seta negra et oro, di oro fino con un velo, seu moccaturo con pizzilli lavorati di oro fino et argento fino. Rete, reticella, reticella de seta, dumenicolis, da domenica, che si metteva cioè nei giorni festivi. Reze, rete de oro a de testa per domina. Riticeglia, de oro et argento.La queide capillis, cum buctinibus de seta. Pontecti de lacze, stringitorium pro capite de seta. Gorlanda, deseta cum pernis.Mantellus, mantellus pro domina, de panno nigro, de panno lòane, coloris viridi foderatum variis, de scarlato foderatum cintato viridi e di altri colori. Laqueis, de mantello cum perlis et ismaltis.
Caligarum muliebrum, de panno rubeo, coloris scarlatini. Caecze, de siti carmosino. Patinorum muliebrum, pari, pianelli di seta di velluto carmosino. Chianelli coperti di broccato bianco. Scarpe de sommaccho, valentiniano. Ventaglie, de donna. (Archivio storico per le province napoletane, anno XXII, fasc. I°, Napoli 1897. – Arch. St. Prov. Nap. Anno XXI, p. 648 n° 1).
G. Aragosa
Frasso,1860.La rivolta dell’Arciprete filoborbonico
Articolo di Valentino Di Cerbo pubblicato il 2/2/2014 (2038 Letture)
Le più famose rivoluzioni (quella Francese e quella Russa) hanno dimostrato che, tra le cause principali di una sommossa, vi sono sicuramente la fame, la miseria, l’esasperazione, ma spesso ottiene un ruolo rilevante un altro motivo, a volte sottovalutato: la “confusione”, talora voluta da personaggi senza tempo, senza nome, senza onore e dignità, che spesso fanno di essa un’arma per tiranneggiare su un popolo schiavo “dell’ignoranza”, sovente con l’intento di trarre vantaggi personali; altre volte provocata da persone idealiste, coinvolte in eventi più grandi di loro. Nel corso della sua storia neanche Frasso è stato immune da eventi rivoluzionari. In un documento del 1888 si parla della necessità di istituire in paese una stazione dei Reali Carabinieri, in seguito alle continue rivolte popolari che, a quanto pare, erano abbastanza frequenti e caratterizzarono l’intero secolo XIX (Cfr.: A. Amore – V. Simone, La storia di Frasso attraverso le delibere comunali (1889-1898) in Moifà VII 2001 – 1 p. 13). In tale periodo storico, particolare considerazione merita la rivolta contadina contro i dazi di occupazione delle terre del Demanio e della Mensa vescovile, del 12 e 13 aprile 1848, durante la quale furono arrestati diversi preti di Frasso, tra cui il Canonico della Chiesa del SS. Corpo di Cristo, Don Pietro Fusco ( A. Amore – V. Simone, Note di cronaca frassese, in Moifà, XI 1996 – 2, pp. 8-9). Il giorno 3 settembre 1861, il popolo Frassese, con l’appoggio della locale Guardia Nazionale, fu ancora una volta protagonista di un’azione militare con la quale respinse gli assalti dei briganti al fine di “evitare le rappresaglie dell’esercito Garibaldino, spesso più crudeli delle vendette brigantesche” (AA.VV., Bnganti in terra nostra, Calvi, Cassa Rurale e Artigiana, 2000, p 22). Precedentemente, nell’ottobre del 1860, Frasso partecipò in modo singolare ai moti insurrezionali che precedettero l’unità d’Italia. Mentre nei paesi vicini, tra i quali ricordiamo Vitulano ed i paesi limitrofi con i Cacciatori Irpini, si organizzavano Comitati di liberazione, da noi si ebbe una rivolta filoborbonica. Conosciamo la cosa, da alcuni documenti tra cui, il Diario di un protagonista di quegli eventi, il Capitano Francesco De Nunzio, che così espone i fatti: “Nell’Ottobre la Colonna, con a capo il Generale Carbonelli, lasciava Pietra Di Fusi, ed arrivava la sera in Torrecuso, dove il Generale Carbonelli seppe l’attacco del giorno sostenuto ai Ponti della Valle. Dopo breve riposo partì con pochi uomini a cavallo per la via mulattiera, diretto a Maddaloni; rimanendo ordine al Maggiore che la mattina seguente si fosse trovato con la colonna in Solopaca in attesa di suoi ordini. Il mattino del 2 Ottobre di buon’ora, la Colonna lasciava Torrecuso (dove ebbe favorevole accoglienza), diretta per Solopaca, ove si fermò in aspettativa di ordini del Generale Carbonelli. Verso l’una dello stesso giorno, una staffetta a cavallo, spedita dal generale Carbonelli al Maggiore, portava ordine di immediatamente recarsi colla colonna sul Ponte Maria Cristina di Solopaca, perché una colonna Borbonica, partendo da Caiazzo, avrebbe attraversato Telese, per passare il fiume sul Ponte Maria Cristina e gittarsi sopra Frasso, ove forte nucleo di reazionari si sarebbe riunito per tentare un movimento sopra Maddaloni (Francesco De Nunzio, “Il conflitto di Isernia”, in Rivista Storica del Sannio, a. 1916, n.6.)”. “‘In mezz’ora fu riunita la Colonna in ordine di marcia, e si lasciò Solopaca per scaglionarsi sul ponte; quando arrivati salla rotabile, sopraggiunse un corriere spedito dal Sig. Marzio Morrone, Sindaco di Frasso Telesino, richiedendo aiuto, poiché la reazione provocata da quell’arciprete, cominciava a manifestarsi, e si temeva spargimento di sangue ed incendi. Allora il Maggiore affidò al capitano De Nunzio la missione di reprimere la reazione di Frasso Telesino, ed egli col resto della colonna si portò sul Ponte per ostacolare il passaggio ai Borbonici” (F. De Nunzio, op. cit., in Rivista Storica del Sannio, a. 1917, n. 1). Mentre altrove si aspettava l’arrivo dei Garibaldini, a Frasso il popolo, capeggiato dall’Arciprete Michelangelo Saquella (parroco di S. Giuliana dal 1851 al 1877) e da altri notabili, insorgeva in favore dei Borbone. Era il 2 Ottobre 1860 ed i Garibaldini con a capo il De Nunzio mossero alla volta di Frasso per sedare la sommossa, guidati da un corriere, che il Sindaco assicurava di piena fiducia. A detta di un testimone oculare: “Quel popolaccio aveva commesso violenze contro i liberali e i galantuomini avevano gridato Viva Francesco II morte a Garibaldi. Lumi, lumi, lumi o fuoco “(G. M. Romanelli, Diario manoscritto, citato da A. Romano, Riv. Piedimonte Matese, A.S.M.V. 1998, p 160). Racconta ancora il De Nunzio. “Arrivati nelle vicinanze del paese ed udite tali voci il De Nunzio ordinò alla compagnia di innestare le baionette, dividendo nel frattempo gli uomini in tre plotoni in modo da circondare Frasso. I vocioni di colpo cessarono ed i garibaldini rapidamente circondarono la casa dell’arciprete Saquella che si ostinò a non aprire. Dopo vari tentativi risultati infruttuosi, il De Nunzio ordinò che fosse sfondata la porta ed entrati all’interno dell’abitazione prelevarono il Saquella insieme ad altri cinque capi del paese per condurli rapidamente al quartiere della Guardia Nazionale, trovato chiuso essendo “la Guardia cittadina entrata nella paura” (F. De Nunzio, op. cit., in Rivista Storica del Sannio, a. 1917 n. 1). Alla notizia dell’arresto dell’arciprete, la Guardia Nazionale si rianimò ed uscì allo scoperto insieme a tutte quelle persone che si erano riparate in case non sospette. Le bandiere bianche gigliate sparirono per incanto e la gente, riversatasi nelle strade, applaudì con frenesia le camicie rosse. Il De Nunzio assicuratosi che l’arresto dell’arciprete e degli altri capi potesse garantire ordine e tranquillità al paese, spedì sulla strada un picchetto di guardia, formato da quaranta uomini, comandato dal tenente Nicola Costa, per appoggiare eventuali operazioni del Maggiore, in caso di conflitto o di nuove sommosse. Annota il De Nunzio: “La notte passò rapida, senza prendere letto. Il De Nunzio mandò il Sotto Tenente Sig.r Nicola Del Giudice di Barletta, a cavallo, in compagnia di due Garibaldini, anche a cavallo (i cavalli erano somministrati dal Sindaco), al Sig.r Maggiore, per informarlo dell’operato e prendere suoi ordini. Il Del Giudice ritornò verso le 9 a. m., portando ordine del Sig.r Maggiore che si fossero condotti i prigionieri in Sant’Agata, e poscia marciare sopra Maddaloni, dove ci saremmo riuniti; poiché la colonna Regia che doveva passare sul ponte Maria Cristina, avvertita nel suo arrivo a Telese della custodia del Ponte, ritornò indietro, e che perciò egli con la colonna recatasi a Maddaloni. Il distaccamento di osservazione che il De Nunzio aveva spedito sulla via rotabile, rientrava a giorno in Frasso. Quindi all’arrivo di Del Giudice, verso le 10 a. m., il Capitano De Nunzio colla sua compagnia, e il degno arciprete e complici, muovevano sotto la sferza di un sole ardentissimo, il giorno 3 Ottobre, per Sant’Agata” (F. De Nunzio, op. cit., in Rivista Storica del Sannio, a. 1917 n. 1). Ecco come il De Nunzio descrive la conclusione della vicenda, che ha termine con la consegna dei prigionieri alla Guardia Nazionale di Sant’Agata dei Goti: “Arrivarono, a Sant’Agata, verso l’una, stancati dal sole e dalla mancanza di sonno. Le acclamazioni di quel popolo, e della parte eletta di quella simpatica cittadella, furono oltre misura splendidissime e cordiali. Il Maggiore della Guardia Nazionale Sig. Rainone era con tutta la ufficialità in quartiere ad aspettare, perché prevenuto dell’arrivo dei Volontari, asserragliati dal popolo festante ed applaudente. Si consegnarono in quartiere i prigionieri” (F. De Nunzio, op. cit., in Rivista Storica del Sannio, a. 1917 n. 2). Così il De Nunzio, che dell’impresa fu parte attiva narra i fatti nel suo Diario, ma a detta di altri, le cose andarono alquanto diversamente.
Enzo Matarazzo & Luciano D’Amico – da: “MOIFA'” anno VII N. 2 Aprile 2001