Pubblicato il 21/10/2009
Intorno alla metà del Quattrocento la preghiera del rosario, chiamata in un primo tempo «salterio» in riferimento ai salmi[1] e già diffusa soprattutto grazie alla predicazione dei domenicani, riceve la sua definitiva strutturazione. A questo stesso periodo sembrano risalire le prime immagini che potremmo chiamare della Madonna del Rosario: l’arte inizia ad esprimere la convinzione che questa forma di preghiera sia stata donata alla Chiesa dalla Madonna stessa. Ma a chi per primo la Madre di Dio avrebbe insegnato questa preghiera e donato la corona?
Il dipinto della Chiesa di S. Giuliana in Frasso Telesino (fig. 1) presenta il dono concesso da Maria e dal Bambino a S. Domenico e S. Caterina da Siena. È una scena molto famosa, riprodotta in diversi quadri e immaginette devozionali. Si tratta di un episodio della vita del santo fondatore dei Padri Predicatori, che, non riferito nelle antiche fonti, aveva acquistato crescente fama nel corso dei secoli. Mentre S. Domenico stava pregando e mortificandosi, gli apparve la Regina del cielo e gli disse: «Prendi questo salterio e predicalo costantemente insieme a me»[2]. In seguito a questa apparizione e al dono del «salterio», evento che sarebbe accaduto presso Tolosa in Francia nel 1212, la predicazione di Domenico ottenne una grande accoglienza. Un’analoga apparizione fu successivamente riconosciuta anche nei confronti di S. Caterina da Siena nel 1380[3].
L’arte ha unito queste due tradizioni, che già la predicazione aveva collegato, e ha raffigurato i due santi, non di rado circondati da altri personaggi, ai piedi della Vergine, nell’atto di ricevere da lei il sacro dono.
Anche nel quadro di Frasso si notano, oltre ai due santi, varie figure intorno al trono di Maria.
È importante ricordare che il nostro quadro risale alla seconda metà del Cinquecento, non molto tempo dopo la battaglia di Lepanto del 1571, data di grande importanza nella storia della devozione rosariana e nella conseguente creazione artistica, poiché alla preghiera del rosario il papa S. Pio V aveva attribuito il successo dell’armata cristiana. A partire da quell’anno, perciò, osserviamo come nelle immagini della Madonna del Rosario la figura del papa, già presente in opere precedenti, si identifichi iconograficamente con quella di Pio V: lo testimonia, ad esempio, un bel disegno di Jacopo Palma il Giovane (fig. 2), agli Uffizi di Firenze, nel quale ai piedi della Vergine contornata dai misteri compaiono inginocchiati S. Pio V, il re Filippo II di Spagna e il doge di Venezia, cioè i principali personaggi cristiani della battaglia di Lepanto, oltre a S. Carlo Borromeo. Così, anche nel dipinto frassese, sono riconoscibili Pio V, circondato da vescovi e cardinali, e forse Filippo II di Spagna con la moglie.
L’insieme è sormontato dall’immagine dell’Eterno Padre nella cimasa ed è inserito nella sequenza dei quindici misteri; due angioletti ai lati in alto distribuiscono corone del rosario e, nelle corrispondenti formelle inferiori, appare ripetuto lo stemma di Frasso, segno della partecipazione dell’intera compagine sociale La predella accoglie un’ultima scena, della quale parleremo in seguito.
Sotto il profilo storico-artistico, questi sono gli anni del Manierismo, che, raccogliendo ed esasperando l’eredità del Rinascimento, sfocerà nella drammatica e complessa estetica del Barocco. Nell’Italia Meridionale assistiamo ad una notevole fioritura manieristica, sia in Sicilia che nella parte peninsulare del Regno. Una menzione particolare va riservata ad alcuni pittori fiamminghi operanti nel Napoletano, soprattutto Aert Mytens, Cornelis Smet, Wenzel Cobergher e Dirk Hendrics meglio conosciuto come Teodoro d’Errico. Proprio a questo contesto manieristico sembra appartenere il quadro di Frasso.
Uno dei primi fiamminghi che giungono nel Regno di Napoli al tramonto del Rinascimento è Cornelis Smet, autore di una Madonna del Rosario a Massa Lubrense (NA): vi notiamo lo stesso schema compositivo del quadro di S. Giuliana, con alcune significative varianti.
Il 4 febbraio 1574 lo Smet sposa Margherita di Medina: testimone di nozze è Teodoro d’Errico, a sua volta imparentato con lo sposo poiché le rispettive mogli sono sorelle[4]. Il d’Errico, a sua volta, l’11 pril 1578 si impegna a dipingere per il monastero femminile napoletano di S. Gaudioso
una cona del Rosario […] intorno la quale cona promette farce li quindici misterij del Rosario […] e la Madonna jn mezo con lo Figliolo jn braccia et sopra la Madonna dui angeli uno per banda et serafini et a pede la Madonna otto figure videlicet ala banda dritta santo Dominico santo Stefano santo Pietro papa lo Re et ala banda sinistra santa Caterina martire santa Ursula martire santa Justina et santa Caterina de siena et jn lo sgabello de bascio la predica de santo Dominico con figure de papa Re cardinali et altri personaggi […]. Item detto magnifico Theodoro promette pittare lo panno de tela che coprirà detta cona a tempra et farce li tre arbori con li quindici misterij cio è ad ogni arbore cinque misterij con lo friso intorno et pieno de rose […].
La descrizione piuttosto dettagliata consente di interpretare con sufficiente chiarezza una serie di immagini simili, frutto dello stesso clima culturale e tecnico se non addirittura delle stesse botteghe. In modo particolare ciò che interessa è la precisazione del soggetto da raffigurare «jn lo sgabello de bascio», cioè nella predella: la predicazione di S. Domenico alla presenza delle più alte personalità ecclesiali e civili.
Altri incarichi vedranno il d’Errico impegnato nell’arte rosariana: nel 1580 per la chiesa di S. Maria della Grazia a Quindici (AV) e l’anno successivo per la chiesa dei SS. Cosma e Damiano in Terranova di Sibari (CS). Ma il dipinto che maggiormente si avvicina quello di Frasso risale al 1585 e si trova nella chiesa dell’Assunta a S. Maria a Vico (CE) (fig. 3): esso risponde quasi alla lettera alla descrizione su esposta.
La struttura generale delle due opere è praticamente identica, come pure l’argomento della predella. Ci permettiamo, pertanto, di dissentire da Nicola Spinosa, che intende la scena inferiore di S. Maria a Vico come la predica di S. Tommaso d’Aquino davanti al papa e al re Carlo I d’Angiò[5]. Più fondata appare, invece, l’interpretazione che ne dà Giuseppe Lala in Moifà del luglio 2000.
Una pergamena, provvidenzialmente scampata alla distruzione, ci informa che il 20 febbraio 1574 a Frasso, come in altri centri d’Italia e d’Europa[6], veniva istituita una Confraternita del Rosario. Il fondatore fu il domenicano Ambrogio Salvio de Balneolo, «su petizione dell’Ill.mo Francesco Grasso e dei Magnifici Andrea ed Antonio Grasso della terra di Fraxino, dopo aver ottenuto il regio exequatur dal Viceré, duca d’Alcalà».
Il Lala, dunque, considera il soggetto della predella come la riproduzione visiva del contenuto della pergamena, cioè
Monsignor Ambrogio Salvio alla cui destra si intravede il papa Pio V con la tiara circondato dalla sua corte e le guardie svizzere; alla sua sinistra altri personaggi maschili e femminili non identificabili. Una figura femminile in particolare guarda fuori dal quadro, molto probabilmente è la committente.
L’opera, perciò, memoria della fondazione della Confraternita, costituirebbe la reinterpretazione attualizzante a livello locale di uno schema narrativo, cioè la predica di S. Domenico, già elaborato dalla tradizione, come è testimoniato dal contratto di Teodoro d’Errico per il monastero di Napoli.
La prima traduzione figurativa conosciuta di questa predica è costituita da una xilografia (fig. 4) custodita presso il duomo di Fermo (AP): immagine piuttosto complessa, ma nella quale sono presenti gli elementi che, opportunamente semplificati e sintetizzati, costituiranno la forma definitiva dell’iconografia rosariana.
In un cerchio centrale è Maria su un trono con il Bambino, nell’atto di donare la corona a personaggi inginocchiati a destra e a sinistra. Intorno al cerchio si svolgono altri giri concentrici con i quindici misteri, Gesù e Maria nella gloria, vari angeli. La scritta in alto, Confratria psalterii Dni nri Jesu Xri et beatissime virginis Marie, indica la committenza e l’ambiente di immediata fruizione del manufatto artistico: si tratta della Confraternita del Rosario, chiamato ancora salterio.
Al centro della zona inferiore si nota un ultimo episodio, intitolato S. Dominicus fundator confratrie salteri [S. Domenico fondatore della Confraternita del Salterio]. Il santo sta predicando da un pulpito e, mentre con la mano destra è nell’atto di rivolgere la parola agli astanti, con la sinistra indica la zona superiore, cioè il contenuto del suo discorso, la diffusione del rosario. In primo piano sono bene evidenziati a sinistra il papa attorniato da cardinali e vescovi e a destra l’imperatore con un re e i dignitari: sono gli stessi personaggi ai quali la Madonna affida le corone nella scenetta centrale.
Anzi, un’altra xilografia (fig. 5) realizzata nel 1510 da Wolf Traut, un discepolo di Dürer, ci mostra il santo nell’atto non più di parlare, ma di consegnare le corone, sostenute da una specie di pertica, ad una folla ancora una volta distinta in due gruppi. La predicazione di Domenico, dunque, consiste nel trasmettere ai credenti, dal papa e dall’imperatore fino all’ultimo fedele, quel dono che a sua volta era stato elargito a lui da Maria.
Nel suo pregevole articolo Giuseppe Lala affronta anche il problema dell’attribuzione dell’opera di S. Giuliana, che giustamente ritiene partecipe del clima manieristico napoletano. Tra i possibili nomi l’autore propende per quello di Francesco Curia, che intrecciò la sua attività con i fiamminghi e con Teodoro d’Errico in particolare, e si applicò anche alla produzione rosariana: alcune sue Madonne del Rosario sono nel Museo Diocesano di Salerno e nella chiesa di S. Massimo a Orte di Atella (CE), mentre da fonti documentarie apprendiamo che il 24 novembre 1600 il pittore riceve dei soldi dal Banco di S. Eligio in Napoli per un altro dipinto dello stesso soggetto[7]. Un ulteriore quadro (fig. 6) al Museo di Capodimonte a Napoli è attribuito sia al Curia che al d’Errico o ad una loro collaborazione.
È difficile, tuttavia, pronunziare un nome definitivo, anche per il non eccellente stato di conservazione del dipinto frassese. Restando nel campo delle ipotesi, si può certamente accettare la paternità di Francesco Curia o di qualche altro maestro orbitante nell’area fiammingo-napoletana o dello stesso d’Errico che in altre opere, ad esempio il dipinto della chiesa di S.Maria della Libera a Saviano (fig. 7), manifesta caratteristiche vicine al nostro quadro.
La Madonna del Rosario di Frasso presenta un’armoniosa simmetria, forse un po’ statica; lo spazio piuttosto limitato, tuttavia, diventa più arioso rispetto al dipinto di S. Maria a Vico e il notevole affollamento dei personaggi viene sfoltito. L’analisi minuziosa dei dettagli lascia il posto ad una raffigurazione più sintetica e sommaria, nella quale le varie pose e l’espressività dei volti evidenziano una notevole resa psicologica sia nel nucleo principale che nelle storie; panneggi, acconciature femminili, gorgiere, abiti, gioielli, atteggiamenti degli astanti, modalità degli sguardi: tutto contribuisce alla realizzazione di un’opera di grande efficacia comunicativa.
La scena della predicazione di S. Domenico si trova sostanzialmente solo nell’area dell’Italia Meridionale[8] e, forse anche a causa della sua struttura troppo farraginosa, tende a scomparire: perciò i dipinti della Madonna del Rosario che la presentano sono pochi. Da un punto di vista dell’evoluzione iconografica e stilistica, la composizione propende ad armonizzarsi in un insieme, senza accostamenti più o meno artificiosi tra le varie parti, ma mirante all’unità del disegno.
Nell’osservare le opere rosariane realizzate in questo periodo, tra le quali il nostro quadro, osserviamo come, nonostante il clima di tensione internazionale dell’epoca, non si avverta una vera polemica antimusulmana né un’enfasi sull’umiliazione del nemico sconfitto, neanche in quei dipinti che sono un’esplicita memoria della battaglia di Lepanto. Sembra quasi che Maria, addolcendo gli animi e spegnendo le tensioni, consegua una vittoria ancora più grande, quella della riconciliazione tra i suoi figli e della pace tra le nazioni.
Vincenzo Francia
1 Le centocinquanta Ave Maria, che costituiscono l’ossatura di questa preghiera, sono una chiara allusione ai centocinquanta salmi biblici. Questa invocazione mariana accompagna la meditazione dei quindici principali misteri della fede, ai quali papa Giovanni Paolo II nel 2002 aggiunse altri cinque.
2 Così ne parla, ad esempio, Alano della Rupe, un domenicano francese del Quattrocento: cf Alano della Rupe, Racconti – Rivelazioni – Visioni, Ancilla, Conegliano (TV) 2006, 105.
[3] A Rovetta da Brescia, L’immortalità di tutta l’opera di Alano, ibid., 677.
[4] Tutta questa documentazione è pubblicata in C. Vargas, Teodoro d’Errico. La maniera fiamminga nel Viceregno, Electa, Napoli 1988, 157.
[5] Cf F. Abbate – G. Previtali, La pittura napoletana del ‘500, in AA. VV., Storia di Napoli, Società Editrice Storia di Napoli, Napoli 1972, V, 899.
[6] Sembra che le prime Confraternite del Rosario siano state istituite in Francia e in Germania: precisamente a Douai nel 1470 e a Colonia nel 1475.
[7] Cf I. De Majo, Francesco Curia. L’opera completa, Electa, Napoli 2002, 185-186.
[8] La troviamo ancora, tra l’altro, a Napoli nella chiesa di S. Maria del Montecalvario, forse di Michele Curia, padre di Francesco, e a Propalati (CS), nella chiesa dell’Assunta, di un ignoto pittore meridionale.
Cfr. MOIFA’ 48, aprile 2007, p.15