Pubblicato il 20/08/2009
La nobile famiglia Gambacorta non lascia mai di stupirci. Rovistando negli archivi e nelle biblioteche si fanno non poche scoperte su questa famiglia che, come afferma Berardo Candida Gonzaga, “fu originata in Alemagna da Gambacorta generale degli eserciti”. Ebbene, tralasciando tanti illustri personaggi ad essa appartenenti, quali le beate Chiara e Bona, e Francesca che edificò in Napoli il monastero di Regina Coeli, ricordiamo brevemente la sventurata Margherita già sposa felice di Antonio Montorio, condottiero combattente sotto le insegne del re di Spagna, e divenuta poi, alla partenza del marito per la guerra, amante del giovane napoletano Ranieri Capece. La nobildonna ebbe una sorte simile a quella di Francesca da Rimini, la cui fine violenta e prematura fece lacrimare Dante: “ Amor condusse noi ad una morte” ( Inf. V, 106). Francesca e il suo amante Paolo cadono sotto la spada del marito di lei che li sorprese mentre si baciavano. Anche Margherita e il suo amante Ranieri, la sera del 3 gennaio del 1597 cadono sotto il pugnale damascato di Selim, un marocchino assoldato dal marito tradito: “Selim salì le scale, abbattè con una spallata la porta e ancor prima che i due sfortunati amanti avessero cognizione di ciò che stava succedendo li aggredì scannandoli con la lama damascata del suo pugnale”. (Della Monica, Le grandi famiglie di Napoli. P. 207). Parliamo ora di Pietro Gambacorta, riportando quanto scrive di lui Francesco Ceva Grimaldi: “Pietro da Pisa nacque il dì 16 febbraio 1355 da Andrea e Niera Gualandi, famiglia nobilissima pisana che Dante ricorda nella Cantica di Ugolino. Per la rivolta avvenuta in Pisa contro Carlo IV di Luxemburg Imperatore, Andrea con tutta la sua famiglia uscì dallo Stato e ramingando morì, ma lo stesso Carlo a riguardo dei Pisani, che amavano la famiglia Gambacorta, riammise Pietro figlio di Andrea nella sua grazia e con diploma lo elevò a cavaliere dello Sperone d’oro e signore di Piombino, di Calcinara, ed altre città. Egli si mostrò indifferente a tante grandezze; e manifestò il vivo desiderio di votarsi a Dio. La madre ed i suoi gli si opponevano, vedendo in lui la persona che poteva reggere i destini di Pisa; ma nel 1375, appena morta la madre, avendo Pietro anni 20 si ritirò presso gli eremiti del S. Sepolcro vicino Firenze. Nel 1378 con pochi eremiti di S. Sepolcro, si ritirò a Montebello vicino la città di Urbino, e col permesso di Oddo Colonna, Vescovo di Urbino fondò un romitorio ove con i suoi compagni menava una vita solitaria e dedita alla contemplazione, secondo la regola di S. Girolamo; e volle che si chiamassero frati poveri per amore di Gesù Cristo o altrimenti poveri Eremiti. Gregorio XII approvò l’ordine ed ordinò che si chiamassero eremiti di S. Girolamo. Pietro morì a 17 giugno del 1435 d’anni 80 in Venezia, ove s’era condotto per affari della sua Congregazione. Nel 1690 il papa Alessandro VIII Pietro Ottoboni ed il suo successore Innocenzio XII Antonio Pignatelli, esortato dall’imperatore d’Austria Leopoldo nel 1697, curarono la compilazione dei processi per beatificarlo, e il Papa Clemente XI Giovanni Francesco Albani, lo dichiarò beato nel 1715, a preghiera di Cosimo dei Medici”. (Ceva Grimaldi, Memorie storiche della città di Napoli, 1857, p. 279). In seguito Pietro fu innalzato all’onore degli altari. La sua congregazione si estese nel Tirolo, nella Germania e nella Baviera. Paolo III concesse agli eremitani ancora i privilegi dell’ordine di S. Agostino e Pio V nel 1571 li aggregò ai mendicanti. Ceva Grimaldi riferisce ancora: ”la città di Napoli con deliberazione del 21 maggio 1546 domandò d’avere il beato Pietro da Pisa per protettore, essendo la di lui famiglia anche in Napoli, ove erane feudataria distinta per possedere Macchia, Celenza, Limatola e Fraxo; si trovava qui definitivamente stabilita da Gerardo, chiamata da Alfonso I nel 1454” (Op.cit p. 280).
Prima di passare a Giacomo successore di Gaetano, l’autore della fallita congiura di Macchia del 1701, riportiamo una nota rinvenuta nell’archivio storico delle province di Napoli, relativo alla sorella di quest’ultimo, divenuta monaca come tante altre donne della stessa famiglia. Donna Maria Gambacorta passò dal suo monastero dei Miracoli “al suo primo monastero, accompagnata dalla signora Carafa e sua madre, dalla signora duchessa di Limatola, dal generale Daun con tutti gli altri ufficiali supremi, con una infinità di signore dame, cavalieri e civiltà” (Archivio st. prov di Napoli X 1885).
Riprendendo il discorso su Giacomo, duca di Limatola, riferiamo che lo stesso assunse anche la carica di Montiero Maggiore del Regno, carica che in seguito divenne ereditaria nella famiglia Gambacorta. Giacomo fu un esperto ballerino e spumeggiante organizzatore di feste, festini e banchetti regali. Forse questo amore per il ballo, il duca Giacomo dovette dedurlo proprio dalle sue terre del Sannio. Si sa infatti che il ballo è stato sempre praticato fin dall’antichità in queste terre. Si ballava sul sagrato dei templi, nelle aie dei contadini, specie il sabato e la domenica. Difatti nel Sannio fin dall’antichità si praticava la danza, come attestano sculture, pitture, rilievi, ricchi di esempi di tipologie gestuali chiaramente riferibili alla danza. A convalida di quanto affermato, riferiamo che a Benevento, nel III secolo d. C (età severiana) un certo C.Concordius syriacus, cavaliere romano, creò una scuola di danza detta orchestòpales, una danza speciale, basata sulla torsione del busto, da cui, secondo gli studiosi nasce una prima forma della danza del ventre. (V. Antonio Sirago, Il Samnium. Nel mondo romano la protezione dei Severi, in Samnium anno LXIX, gennaio –giugno 1996, N. 1-2). Riportiamo l’epigrafe che parla di Concordius “commentariensis reipublicae Beneventanorum, numerarius, poeta latinus coronatus in munere patriae suae, primus Beneventi studium orchestopales instituit – notaio e segretario capo degli uffici degli atti pubblici della città di Benevento, che dà spettacolo dei gladiatori, poeta latino, vincitore laureato, in un concorso della sua patria, creò per primo una scuola di danza a Benevento. (Cil IX 1663; ILS 5179 – Cfr. A. Zazo, Curiosità storiche beneventane, Ricolo, 1976, p. 10). Dal diario napoletano dal 1700 al 1709 veniamo a conoscenza che nell’ultimo giorno di Carnevale il 21 febbraio 1708 in una delle quattro quadriglie che attraversano via Toledo si trova il duca di Limatola, Giacomo Gambacorta. “Li 21 ultimo giorno di Carnevale uscì per la strada di Toledo il carro trionfale fatto di cavalieri che figurava il trionfo di Armida. Nel ritorno dal campo di Goffredo essendo ella assisa in cima di detto carro con i suoi seguaci per festeggiare l’arrivo di detta Viceregina, ricco di color bronzino, fregiato d’oro e mirabilmente costruito di bella e smisurata altezza, tirato da otto bizzarri Frisoni e dentro di esso seduti in forma teatrale quattro quatriglie di varii colori e consistenti di ventiquattro cavalieri con numerosa turba di lacché che costeggiavano detto carro. La prima quatriglia formata dal marchese Della Terza, B. Doria, D.Francesco Sangro, principe di Castelfranco marchese del Pizzone, D. Michele Capecelatro. La seconda da D. Gaetano Capece, don Federico Pappacoda, principe di Tarsia, Duca dell’Isola, D. Giovanni Tomacelli, Vincenzo Carafa, la terza era formata da don Francesco Tomacelli, Principe Pio, Giacomo Gambacorta, duca di Limatola, conte di Montuoro marchese di Brianza. Marchese di Rofrano e la quarta, F. Caracciolo principe di Scanni, duca di Cerisano, D.Gaetano Capecelatro, principe di Chiusano, duca di Girifalco” (Diario napoletano, op. cit. , p. 599).
Ma Giacomo Gambacorta si rivela anche un provetto cerimoniere che riuscirà ad organizzare per sua eccellenza Conte Daun, eletto Viceré del Regno di Napoli, un ricco simposio a Licola. Sua eccellenza, il Conte Daun difatti per ingraziarsi il popolo napoletano per la sua prestigiosa carica di Vicerè, si mostra munifico in ogni maniera. Tra l’altro, in occasione della festa del glorioso S. Carlo, permise al popolo di saccheggiare “quattro gran macchine piramidali cariche di volatili ed altre sorte di commestibili, con due fontane di vino che scorrevano tutto il giorno e che poi in un subito furono convertite in fuoco artificiale, che fu visto da questo pubblico riuscendo con gran gusto di tutti”. Lanciò dal balcone del suo palazzo centinaia di ducati al popolo e varie monete d’argento. Emanò un decreto con il quale si stabiliva che per quattro mesi i creditori non avrebbero dovuto molestare le persone in debito nei loro confronti per una somma meno di 30 ducati e nel contempo coloro che si trovavano in carcere per detta somma dovevano essere subito scarcerati.
Ma la cosa che piacque di più ai napoletani fu la partecipazione ad una grande battuta di caccia a Licola, promossa dal vicerè Conte Daun e organizzata nei minimi particolari da Giacomo Gambacorta. “Li 22 novembre 1707 S.E. andò alla caccia a Licola con concorso di molte dame, dove il duca di Limatola, Giacomo Gambacorta li fè trovare un ricco postiglione con dei rinfreschi, concorrendovi molti cacciatori in detto luogo per essere luogo riservato” (Diario Napoletano dal 1700 al 1709, in Arch. It. Prov. Nap. 1885, p. 617-18.)
Da dipinti dell’epoca e da un cartiglio che elenca le spese del pranzo nuziale di una giovane napoletana di nome Capizzucchi Ortenzia, che si tenne alla fine di ottobre dell’anno 1694, ovvero appena undici anni prima del ricco rinfresco offerto da Giacomo Gambacorta alla comitiva reale a Licola, possiamo conoscere in certo modo le pietanze in uso a quel tempo per pranzi di gala. Ricordiamo che il cartiglio è conservato nella Biblioteca Nazionale di Roma.
Il pranzo fu ordinato dal maestro di casa mastro Belardino, il quale si avvalse dell’aiuto di tre cuochi e due trincianti, ovvero addetti al taglio delle porzioni. Ed ecco il pranzo servito in tavola, coperta da preziosi tappeti, nei quali sono stese tovaglie ricamate con candelabri d’argento e saliere cesellate insieme a salviette e stuzzicadenti; al centro di un tavolo è posto un gran piatto d’argento rotondo contenente pane di diverse fogge, ciambelle e biscotti. L’antipasto è formato da varie specie di biscotti e tortine, focacce, insalate, latticini, tortore con uve non ancora mature, agresto, -siamo alla fine di ottobre- pasticci di uccelletti, salsa di olive e capperi e limoni trinciati.
Seguono le seconde portate con vivande a lesso servite fredde con salse e intingoli, o conditi con melegrane, oppure ancora in galantina. Le stesse portate sono rappresentate dagli arrosti, specialmente da pollame e cacciagione, anch’essi accompagnati da salse, pere e mele cotogne, cotte sotto l’arrosto.
Infine arrivano torte e frutti, equivalenti al nostro dessert: pere stufate, melangoli (aranci) ripieni, lazarole (o azarole, una specie di melette bianche e rosse che fino a qualche decennio fa si coltivavano anche nelle antiche terre dei Gambacorta), mele di varie specie, meloni, uva pizzutella pesche, zucca candita. E ancora crostate, pasticcini, confetti, violette candite, tartufi herbolati alla fiorentina e infine formaggi campani. Insomma un pranzo degno di un viceré.
Giuseppe Aragosa
Da MOIFA’ Anno XI, n° 2 (40) – Aprile 2005, p. 20